Sulle orme delle India Pale Ale

01 Febbraio 2018Sulle orme delle India Pale Ale

Personalmente, ma non solo, tra le più importanti rivoluzioni brassicole che la storia ricordi, una materia prima principe torna sempre con costanza a reclamare la propria nobiltà e capacità di creare -o spostare- le tendenze. Di triplice impiego e con centinaia di sfumature esaltanti, proclamatore di tali “destabilizzazioni” è lui: il Luppolo.

Amaro, aroma e capacità conservatrice fanno del luppolo la perfetta “ciliegina sulla torta” per completare ed equilibrare una moltitudine di stili birrari. Ma cosa accade quando questo elemento “di decoro” si erge e conquista rispetto, quando da sfumatura diventa protagonista, quando da ciliegina diventa la torta intera?

Prima dell’anno 1000 d.C. il luppolo era un elemento brassicolo sconosciuto. Per aromatizzare o amaricare la birra venivano per lo più usate diverse tipologie di erbe selvatiche e fiori. Questo mix, sempre diverso a seconda del periodo dell’anno o della zona di produzione, costituiva il cosiddetto “grüit”. Esistevano addirittura degli specialisti, rivenditori e assemblatori di grüit, che girando per i birrifici europei riuscirono a far ampliare le conoscenze empiriche dei birrai grazie all’utilizzo di molteplici materie prime. Accade però che a Brema, nell’anno 1000 appunto, in una partita di grüit finisce anche una certa quantità di luppolo selvatico. Da lì in avanti quella quantità sarà destinata a crescere costantemente, fino alla metà del secolo successivo, quando Suor Hildegard von Bingen, una suora benedettina naturalista tedesca, approfondisce i suoi studi sul luppolo grazie a coltivazioni curate da lei nel giardino dei semplici dell’abbazia di St. Rupert, in Germania, notando che il luppolo “grazie alla sua amarezza, blocca la putrefazione di certe bevande alle quali lo si aggiunge, al punto che possano conservarsi molto più a lungo.” (Tratto dal “Libro delle Creature”).

La birra, essendo un prodotto mediamente a basso contenuto alcolico e con un pH abbastanza alto è sempre stata facile preda di contaminazioni biologiche. Trovando adesso però un palliativo naturale nel luppolo, si abbandona via via il grüit e si inizia a produrre birra esclusivamente aromatizzando e amaricando con luppolo proprio grazie a queste proprietà conservative.

Compiendo un balzo in avanti di 6 secoli chiaramente le cultivar di luppolo “addomesticate” si sono moltiplicate notevolmente, così come le conoscenze tecniche nei confronti del processo brassicolo. Si lavora da tempo sugli scambi commerciali importanti con e tra le colonie del nuovo mondo e così si presenta la possibilità di esportare anche la birra. Per la nostra storia, ci concentriamo in Inghilterra. Siamo nei primi anni del 1700, le birre prodotte sono essenzialmente riconducibili a due filoni: le scure Porter, e le bionde e amare Pale ale (all’epoca semplicemente chiamate anche Bitter). Centro nevralgico dell’eccellenza brassicola Inglese era (ed è) Burton upon Trent, una cittadina posta tra Londra e Liverpool. Tale qualità è essenzialmente da ricollegare a una falda acquifera con proprietà uniche al mondo. In quegli anni dobbiamo però considerare un’enorme svantaggio legato alla diffusione della birra di Burton, e cioè la mancanza di collegamenti veloci verso Londra. Fu anche grazie a questa condizione favorevole che la famosa Compagnia delle Indie, che attraccava a sud della Capitale, per esportare le birre nelle nuove colonie scelse i prodotti di un birrificio distante poco più di un miglio dal porto: la Bow Brewery, fondata nel 1752 da George Hodgson.

Hodgson comprendendo quali vantaggi poteva portargli una collaborazione di tale portata, fece di tutto per stringere i rapporti con la Compagnia delle Indie evitando che quest’ultima potesse cercare altri fornitori, e così incluse nell’accordo un’offerta imbattibile: oltre a sconti generosi, richiese il pagamento a un anno e mezzo dalla consegna. Fu così che la Bow Brewery iniziò a spedire tutte le birre presenti nel suo catalogo, tra cui ovviamente Porter e Pale ale. All’epoca,  esclusivamente per un pubblico maggiormente elitario, qualche birrificio produceva una Pale ale leggermente più alcolica e soprattutto più luppolata che necessitava di un affinamento di oltre 10 mesi. Conoscendo già le proprietà  conservative del luppolo, Hodgson incluse tra le partite anche la sua versione “Stock” (più luppolata) la quale venne letteralmente presa d’assalto una volta giunti in India. Sicuramente quello che arrivò a destinazione fu il prodotto maggiormente in forma tra tutti i lotti grazie a questo magico quid di luppolo in più, ma si pensa che il merito molto probabilmente fu anche dato dal contributo del cosiddetto “Effetto Madeira” (grandi escursioni termiche in stiva tra giorno e notte, e forti rimescolamenti) che portò ad ottenere in poco tempo gli effetti positivi di lunghi mesi d’affinamento in cantina. Fu chiaro, visto l’enorme successo, che di fronte a grande domanda bisognava rispondere con una grandissima offerta e così la Compagnia aumentò a dismisura i propri ordini alla Bow che in oltre 30 anni di collaborazione, quintuplicò la propria produzione. La base per la India Pale Ale era stata gettata. Il suo successo arrivò presto anche in patria e si cominciò a richiedere anche in Inghilterra la birra preparata per l’India. I birrai di Burton fiutarono l’affare e, anche se occorrevano ben 7-10 giorni di viaggio per raggiungere Londra, presero a stringere rapporti con la Compagnia delle Indie. Intanto nel 1820 la Bow Brewery, probabilmente in cerca di margini maggiori, decise di spedire personalmente i propri prodotti e fu così che Allsopp, uno dei birrai di Burton più famosi dell’epoca, trovò terreno fertile per commercializzare la sua “copia” della Stock di Hodgson tramite la Compagnia. Solamente un anno più tardi, in concomitanza con il blocco delle importazioni della birra da parte della Russia, altri birrifici di Burton (come Bass e Worthington) approdarono nella colonia Inglese con i propri prodotti e cominciarono a conquistare fette di mercato sempre maggiori. Occorre però attendere fino al 1829 prima di poter  effettivamente sentir parlare di India Pale Ale, fino a  quel tempo, infatti, si era solo disquisito di “pale ale as prepared for India”. È il 29 Agosto quando la Gazzetta di Sidney pubblica una pubblicità in cui indica appunto la dicitura “India Pale Ale”, non attribuendo a nessun birraio in particolare però il merito dell’invenzione (se di invenzione vera e propria si può parlare). Probabilmente, noi osservatori e amanti della storia, siamo sempre partiti da questo concetto sbagliato – ovvero che le India Pale Ale siano state inventate appositamente per l’India – poiché difatti nessun birraio ne reclamò mai la paternità. E del resto, gli annunci pubblicitari rivolti al pubblico Australiano così come quello Neo Zelandese, dimostrano che le “India” non erano affatto prodotte solo per quella colonia, bensì si rivolgevano anche a orizzonti di più ampio respiro.

Con la realizzazione nel 1839 della ferrovia che collegava Burton-on-Trent a Londra, le distanze si ridussero notevolmente fino a sole 12 ore di viaggio. Questo portò in brevissimo tempo al monopolio nelle colonie dei più prestigiosi marchi produttori, scalzando definitivamente la Bow Brewery da un piedistallo che era stato luminoso per lei per oltre mezzo secolo.

Fu solo nel 1869 che Hodgson si riscattò con la storia quando William Molyneaux scrisse un libro intitolato: “Burton-on-Trent: its history, its waters and its breweries”, nel quale affermava che l’effettiva creazione e il merito delle IPA era di quel birraio che per primo conquistò i mercati in India: Hodgson appunto. Sosteneva per la prima volta “l’invenzione” e quindi catalogava le India Pale Ale (fino a quel punto sostanzialmente sovrapponibili alle Stock Pale Ale) come uno stile nuovo, creato appositamente per uno scopo. Effettivamente fu una storia decisamente più romantica e magica quest’ultima proposta da Molyneaux e probabilmente, proprio per questo motivo, gettò la base di una nuova storia da tramandare. Storia che spesso, ancora ai giorni nostri, ci ritroviamo a dover sfatare. Con l’arrivo del ‘900, come abbiamo già visto accadere nella storia delle Porter, inizia un lento declino per la birra che coinvolgerà anche le I.P.A. La guerra e la sua corsa inesorabile agli armamenti trascina in un baratro tutte le produzioni normalmente disinteressate a certi meccanismi bellicosi. Le tasse si accumulano e si concentrano in ogni settore: nei birrifici colpisce tramite un’accisa asprissima nei confronti del grado alcolico. È così che tutti i birrai, cercando di mitigare le ingenti spese, modificano le proprie birre, abbassando gradualmente ma costantemente il grado alcolico (a favore di minori tasse da pagare) e le quantità di luppolo  (materia prima da sempre molto esosa). Tutto questo portò a svilire completamente lo stile e ad accorparlo alla classica Bitter da cui inizialmente si discostava. In 60 anni, dopo le disgrazie di due guerre mondiali sulle spalle, pochi erano i produttori che ancora si dedicavano a tramandare la India Pale Ale, sia in Inghilterra, sia (ovviamente dopo l’arrivo delle tecnologie frigorifere, verso la fine del 1800) direttamente nelle colonie.

Il periodo risorgimentale per il luppolo e per le ormai decadute I.P.A. si ha in America durante i suoi gloriosi anni ’70-‘80. Nello stato di Washington troviamo una valle particolarmente adatta alla crescita di luppolo di qualità: Yakima Valley. In questa valle, si selezionano e coltivano una grande quantità di luppoli autoctoni come il Cascade, il Willamette e il Chinook, caratterizzati dall’avere intensità notevoli accanto a interessanti complessità olfattive, giocando tra profumi agrumati come arancia e lime, l’erbaceo fresco e la resina del pino.

Fritz Maytag, il proprietario di Anchor Brewing Company, un importante birrificio di San Francisco, andò in cerca delle originali robuste Pale Ale preparate per l’India visitando i posti dai quali videro la luce: Londra, lo Yorkshire e Burton Upon Trent appunto. Ne studiò le caratteristiche produttive e una volta tornato in patria, decise di omaggiare il nobile stile nel 1975, attualizzandolo però rispetto alle magnifiche produzioni americane in fatto di luppoli, creando così la prima  American I.P.A.: la Anchor Libery Ale, aprendo una strada che avrebbe suscitato l’interesse di moltissimi altri birrai americani e che con il tempo, ricreò la voglia di tornare a produrre le gloriose India Pale Ale. Il primo esempio però di grande riuscita commerciale si ebbe con l’American Pale Ale del Sierra Nevada Brewing Company (California), che lanciò il prodotto nel 1980 e che a oggi resta un importante punto di riferimento mondiale per lo stile. Solamente un anno più tardi, la Sierra Nevada si cimenta in un altro importante e storico progetto che resterà tra i cavalli di battaglia del birrificio: la Celebration Ale, una magnigica American IPA.

A questo punto è doveroso fare un minimo di pulizia generale rispetto ai concetti stilistici di IPA, APA e AIPA. Se le I.P.A. sono le birre che abbiamo visto sin ora: abbastanza corpose, con un grado alcolico medio di 6,2%vol e che basano tutta la loro grinta su generosissime gettate di luppolo rigorosamente Made in UK, le American IPA (AIPA) conservano lo stesso identico corpo robusto cambiando però l’ultimo fattore fondamentale e cioè la provenienza e le cultivar di luppolo che devono essere ovviamente americane. In questo contesto troviamo poi le American Pale Ale (APA), che sono molto più leggere e meno impegnative (simili ad una Golden Ale) ma che apportano un piacevole, anche se meno sostanzioso, quid di luppoli americani.

Questo fervente movimento birrario Americano risollevò così le sorti dello stile capostipite con un meraviglioso gesto: una stretta di mano generazionale, il giovane bambino che prende per mano il vecchio saggio e lo fa rialzare, restituendo una rispettosa dignità. Il luppolo e le sue tecniche di utilizzazione hanno condito questa storia durata 1000 anni, e in particolare rispetto alle super luppolate pale ale, si è giocato in ogni latitudine con i piacevolissimi risultati del dry hopping: la luppolatura a freddo conferita durante, o al termine, della prima fermentazione. Questa tecnica ha numerosissime figlie al suo seguito, e mi piace dividere il merito della gloriosa ascesa della birra artigianale Italiana degli ultimi 20 anni anche con questa pratica. Luppolo estremizzato, goloso, sofisticato, innovativo o tradizionale. Sempre capace e pronto però a destare la giusta curiosità nell’animo del degustatore. Poliedrico nettare ora speziato, ora tropicale, ora ancora terroso o erbaceo, in grado di ergersi maestoso sopra al semplice elemento di decoro e divenire il Protagonista, da semplice sfumatura che fu, e trasformarsi nella “Torta intera”, da semplice ciliegina che fu.

Tratto da Vitae n.13 dell'AIS - Scritto da Riccardo Antonelli