Birra Artigianale, questa sconosciuta...

07 Agosto 2017Birra Artigianale, questa sconosciuta...

“Che cos’è il genio? È fantasia e intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”, diceva il Giornalista Perozzi(Philippe Noiret, NdA)in -Amici miei- di Mario Monicelli.
Trovo interessante estrapolare questa citazione e riproporla oggi nel tema delle grandi birre artigianali di qualità.

Ma che cos’è questa birra artigianale? Argomento spigoloso e di non facile capigliatura. Da poco mi sto spostando dall’enologia verso questo fantastico mondo della brasseria, un mondo veloce, dinamico ed in continua evoluzione, che non segue logiche tradizionali proprio in virtù dello svincolo storico che ha in Italia.

Birra, o meglio, Birre! Concetto semplice ma interessante: non esiste infatti la birra, ma esistono molteplici birre. Decine e decine di stili birrai e, quindi, di tipologie diverse con propri caratteri aromatici di distinzione, fondamentali da conoscere per una degustazione o un abbinamento corretto. Birre artigianali Italiane, dicevamo, libere da tradizioni da seguire e, in virtù di questo, libere di scegliere il proprio cammino. A volte, vedendo il fervore e l’entusiasmo di certi Mastri Birrai, ho la netta e coinvolgente sensazione di essere ben centrato nella storia. Noi Birrai stiamo scrivendo oggi la nostra storia ed è facile rendersi conto del cambiamento dando uno sguardo al movimento sempre crescente di birre artigianali, nonché al fermento reale e stupefacente che si rinviene nei consumatori.

Piccola parentesi doverosa – escludendo quei consumatori che: “ah, tu fai birra artigianale?
Che bello! A me piace molto, ho assaggiato giusto ieri la birra X 19-43-78...luppoli”) Birra Artigianale è ben altro, senza nulla togliere al genio del marketing che ha ideato questa vincente campagna industriale.

Partiamo dagli inizi allora: doveroso è parlare del “papà” della birra artigianale in Italia, colui che per primo ha scosso il mondo enologico con i suoi prodotti a base di malto, illuminando la deprezzata sfera della birra, parlo di Teo Musso e della sua Baladin. Era la prima metà degli anni ’90 quando a Piozzo, nelle terre del Barolo, iniziava a farsi strada un giovane che brassava la propria birra nel suo locale di mescita. Grande spirito imprenditoriale e convinzione nel prodotto gli hanno permesso di scalare, un passo alla volta, le vette di quello che allora era a tutti gli effetti “un non-settore”. Dai primi anni del 2000 iniziarono acrescere altri microbirrifici in grado di ritagliarsi uno spazio, creare una competizione e, con quella, affermare una nuova categoria di prodotti. Nasceva la birra artigianale Italiana. Ma di cosa si tratta? E in cosa si discosta dai nomi delle grandi industrie esistenti? Fino a non molto tempo fa in Italia era assodata la definizione di Unionbirrai, che etichettava la birra artigianale come una birra non pastorizzata e non filtrata. Questa definizione si è però modificata col tempo poiché generalmente considerata limitante, al punto che il riferimento alla filtrazione è scomparso, mentre ha iniziato a prender piede il concetto di “birra cruda” – aggettivo che, onestamente, è solamente confusionario e male esplica un prodotto già non meglio interpretato. Con birra cruda si intende infatti, confesso con un po’ di fantasia, la non pastorizzazione del prodotto, pratica questa, che invece rimane ben salda e a più riprese sostenuta dalla quasi totalità dei Birrai. La pastorizzazione (o pasteurizzazione) è un processo di risanamento termico attraverso il quale è possibile aumentare la shelf-life di un prodotto, che vuol dire quindi una maggior conservazione ed una più longeva stabilità organolettica. Questo però a discapito di un deprezzamento qualitativo notevole, si abbattono, infatti, eventuali lieviti residui e batteri ma si “cuociono” e, quindi si alterano, anche tutte quelle molecole aromatiche che prima garantivano una determinata qualità sensoriale.

L’esponenziale sviluppo del movimento nazionale ha così portato Unionbirrai ad elaborare una nuova formula: “La birra artigianale è una birra cruda, integra e senza aggiunta di conservanti con un alto contenuto di entusiasmo e creatività. La birra artigianale è prodotta da artigiani in quantità sempre molto limitate.”

Come si evince, la parte tecnica di produzione ha assunto confini decisamente interpretabili, mentre è palese il riferimento alle caratteristiche passionali del prodotto. Per quanto riguarda poi la capacità produttiva, il discorso si complica ulteriormente. In Italia
il limite di produzione al di sotto del quale un birrificio è considerato artigianale, è convenzionalmente fissato in 10.000 ettolitri l’anno, mentre negli Stati Uniti in circa 70.000 ettolitri l’anno. La Brewers Association statunitense ha più volte corretto questo limite negli
anni, dimostrandone così il suo valore relativo, con l’obiettivo unico di riportare nell’ambito dell’artigianalità alcuni noti birrifici ormai“troppo cresciuti”.

Purtroppo (e questo vale per qualsiasi settore), idolatrando la filosofia del “piccolo è buono”, frequentemente si è portati ad associare una piccola produzione ad una idea di qualità. Non sempre è così. Non è difficile, infatti, trovare sempre più spesso prodotti decisamente mediocri, o pessimi, fatti belli dal fregio profumato dell’aggettivo “artigianale” in mano a microbirrifici. E così, di tutta risposta, è ormai anche semplice trovare birrifici Americani universalmente e meritatamente definiti “artigianali” che hanno superato largamente le produzioni di alcuni stabilimenti di birra industriale Italiana senza abbandonare un’ottima costanza qualitativa e mantenendo vivo il “germe” frivolo della curiosità e della sperimentazione. La qualità è quindi un concetto estrinseco, che prescinde dall’industrialità, dall’artigianalità o dalle dimensioni aziendali. E questo, da consumatore e da produttore, è un concetto goloso, estremamente affascinante ma altresì pericoloso. Lama a doppio taglio.

“Artigianale”, quindi, non è nemmeno un sigillo di qualità. Sicuramente però, una vera birra artigianale, in virtù di quella ricerca di qualità, è prodotta senza l’utilizzo di succedanei come il mais o il riso (ampiamente utilizzati nell’industria), ingredienti economici che, sostituendo l’orzo in grandi percentuali come fonte di amido, consentono di aumentare la resa produttiva contenendo decisamente i costi. Il tutto però andando ampiamente a discapito del gusto finale della birra. Materie prime di qualità per un prodotto di qualità è una regola extra-settoriale ben nota. Un grande problema chene deriva, per le artigianali, essendo queste ultime una piccola goccia nel mare delle industriali, è la conseguente inesistente temperatura di servizio consigliata al consumo. Con l’obiettivo preciso di celare i limiti delle birre, l’industria ha ormai da decenni inculcato nei consumatori l’idea (folle!) che la birra debba essere bevuta ghiacciata. Noi Sommelier conosciamo molto bene la grande importanza che la temperatura di servizio ricopre per la volatilità dei profumi
o per l’accentuazione o l’anestetizzazione di alcune sensazioni gustative. Sappiamo bene allora, e dovremmo iniziare a notarlo anche nella birra, che un prodotto bevuto a temperature polari, maschera difetti o gravi carenze qualitative in favore di una “asettica” maggiore gradevolezza. Provare per credere, servite a temperatura ambiente una industriale che magari siete soliti consumare e vi renderete conto della oggettività delle cose. Fate lo stesso poi con una artigianale per controprova. Già immagino il vostro sorriso nel notare le differenze. Non sono, altresì, d’accordo nel vietare totalmente l’utilizzo di succedanei genericie fantasiosi in nome di un mal copiato “Editto della Purezza” Tedesco (una norma promulgata da Guglielmo IV di Baviera nella città di Ingolstadt nel 1516, atta a regolamentarela produzione e la vendita della birra in Baviera che spiegava come gli ingredienti unici per la birra potevano essere solo l’acqua, l’orzo e il luppolo). Un divieto genera restrizioni e, così facendo, ci toglieremmo il privilegio di assaggiare le fantasiose stranezze di certi birrifici che utilizzano castagne, farro, nocciole, caffè, mieli di ogni genere, mosto d’uva ed altro ancora nelle proprie ricette. I succedanei allora, per essere utilizzati, dovrebbero poter essere riscontrabili dal degustatore nella birra ed in grado di donare alla stessa un aroma piacevole e migliore rispetto al suo nonutilizzo.

È un concorso al ribasso tentare di trovare una definizione, uno sfoltire la matassa di preconcetti creati nella speranza di vederne il cuore. Mi azzardo quindi, alla luce di quanto premesso, a tentare di creare un po’ d’ordine in questo mare magnum di etichette e formule, prendendomi sicuramente la mia buona dose di contestazioni. Dipingo quindi una definizione di molteplici pennellate, utili ed esaustive (mi auguro), solo se osservate nella visione d’insieme, facendo un passoindietro.

Artigianale è la birra autentica con cui il birraio si “sporca” le mani, calli e scottature di esperienza per mani in grado di forgiare un’opera d’arte, un capolavoro da spillare o stappare. Artigianale è la ricerca dell’artigiano verso il pezzo unico, non una copia a stampo di centinaia di simili, omologazione di massa testarda e viziata al consumismo. Il pezzo unico è l’eccellenza riconoscibile, individuabile alla cieca, riferimento per i posteri da cui prender spunto.

Obiettivo è centrare uno stile (o crearne uno dal nulla!) e, al tempo stesso, avere l’umiltà e la faccia tosta di imporre una piccola personale variante: La Firma. Il segno prelibato del passaggio di un Birraio. Potremmo dire, un proprio gesto artistico o, più enologicamente, la propria “liqueur d'expedition”, visto come segreto e tocco finale. È quindi il Birraio il protagonista di tutta la faccenda. Unionbirrai dovrà, indubbiamente per la veste che ricopre, cercare una definizione meno opinabile e più tecnica, ma non è andata lontana, a parer mio, dall’obiettivo romantico e passionale che ruota attorno al concetto. È l’uomo che, se artigiano, è in grado di trasmettere estro e genialità alle proprie birre. E così queste possono definirsi artigianali poiché è il birraio stesso e poi il consumatore che ne ritrova i caratteri distintivi. Questo pathos viscerale che fermenta prima nel cuore, nella mente del Birraio e poi nelle sue birre, sarebbe addirittura l’unico elemento di distinzione secondo Randy Mosher, scrittore e giornalista americano, istituzione internazionale nel campo brassicolo che disse: “è artigianale quando è guidata dalla passione. Chi fa marketing e decide cosa il consumatore vuole, quello fa birra industriale, poiché perde il collegamento con le persone.”

Ed è questo allora che fa, personalmente, la differenza nel limbo delle definizioni tanto cercate della birra artigianale. Estro, creatività, sperimentazione, curiosità, umiltà e, assolutamente, tentare anche il contatto con la territorialità; tutto questo definisce più che una artigianalità di prodotto, una genialità dello stesso. Non potremmo allora smettere di tentare di trovare un posto nel dizionario per la “birra artigianale” e iscriverci, invece, con gusto “la birra geniale”?
Perché in fondo...“Che cos’è il genio? È fantasia e intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”.


Tratto da Vitae n.8 dell'AIS - Scritto da Riccardo Antonelli